Non scriverò numeri, non fornirò percentuali.
Non ho voglia di matematicizzare un dramma.
Le donne, in Italia, muoiono.
Muoiono ammazzate dai loro uomini, dai loro ex, da chi le conosce bene. Generazioni di mamme e di “non uscire stasera”, “non fare tardi”, “non parlare con gli sconosciuti” sono fumate via nel vento di questa primavera nonprimavera.
L’assassino delle donne ha le chiavi di casa.
Non è lo sconosciuto dei film horror da 4 soldi, dei B-movie caricaturali. Ha le chiavi di casa.
Ne ho viste troppe di foto di occhi: i giornali le prendono dai profili facebook e ce le sbattono addosso sorridenti e con una vita davanti. Foto di case, piazze, appartamenti, strade, villette. Foto di amici inconsolabili, parenti inconsolabili, conoscenti inconsolabili e a volte, supremo orrore nell’orrore, figli destinati alla solitudine più atroce, quella dei senza mamma.
Non scriverò numeri. Non farò nomi.
Provo a pensare in piccolissimo.
Da dove giunge quest’odio ferino verso le donne?
Da un’epica di maschilismo nuovo che, come tutte le onde che ritornano più forti dopo un attimo di quiete, è violenta, travolge, non ammette barriere. Siamo tornati indietro. Tanto indietro.
Al maschilismo (sia chiaro, l’omofobia è sorella e ha le stesse origini e deve essere combattuta veementemente nella stessa maniera) si aggiunge un mondo invelenito, un’Italia masticata e aizzata dai leader politici, dai vip da 4 soldi, dai presunti intellettuali che sempre più frequentemente usano un registro di comunicazione violentissimo, arrogante, sanguinario, cruento.
“Il nostro è un paese che starnazza di moderazione, ma pratica la ferocia”, non è mia – magari – ma di Moni Ovadia. L’ho letta ieri e spero di non dimenticarla mai. Anzi, spero nella mia vita di poterla dimenticare.
Agli atteggiamenti di possesso malato (“tu sei mia, io di te faccio ciò che voglio”) si sommano dunque quelli di violenza verbale (“vaffanculo cazzo t’ammazzo”): all’apice di questa unione si trova il femminicidio, piaga che sta lacerando il nostro Paese.
Femminicidi.
Non chiamateli “delitti passionali”. Ne soffro. Per tre buoni motivi:
1. Il termine “passione” ad una vecchia studentella di Liceo Classico come me, riporta alla sua etimologia greca di “sofferenza”. La sofferenza non c’è in questi delitti, ci sono morte e distruzione per la donna; ci sono bestialità e inumana sopraffazione per l’uomo. C’è sofferenza nel salutare un amico che riparte per lidi lontani, c’è sofferenza nel lasciarsi e nel perdersi, c’è sofferenza nella malattia e negli occhi di chi spera sapendo che è inutile. Addirittura, per chi crede nel cristianesimo, c’è passione-sofferenza nella fine di Gesù (e qui voliamo alti).
2. La “passione”, ancora e soprattutto, fa sicuramente pensare alla sensualità, all’amore carnale, all’erotismo. In un uomo che brucia, accoltella, soffoca, massacra di botte, spara ad una donna, non c’è niente di sensuale. C’è una bestia. C’è un pazzo disumano. E basta.
3. Il delitto passionale ha un che di antico, fa molto Italia dei film in bianco e nero, del boom economico, degli anni di Gianni Morandi e di quando i nostri genitori erano ragazzi… insomma, come tutte le cose investite di un sapore storico, temo vivamente che ci sia chi ci legga un’accezione più sfumata, più rosea, più “eh, ma a quei tempi però si stava bene”. Un omicidio non si edulcora. Un omicidio si processa.
Mi sono chiesta da cosa si possa cominciare per arrestare quest’emorragia così lontana, così vicina da me.
E’ lontana, perché gli uomini che ho accanto (partner, parenti, amici) sono a dir poco meravigliosi. Attenti, divertenti, generosi. Non ho mai visto nulla di più pericoloso fatto da ciascuno di loro verso le proprie compagne che non sia minacciare di mangiare un altro piatto di pasta di nascosto da loro che li mettono a dieta.
E’ vicina, però, questa piaga dei femminicidi. Perché tocca tante donne, come me, in città e paesi simili a dove vivo, coetanee, più piccole, più grandi, che hanno vite similissime alla mia.
Allora, torno a chiedermi: come posso dare un contributo a ricostruire la figura della donna, a tutelarci, e ad aiutare gli uomini-bestia che pure da qualche parte esistono e sono sempre più numerosi?
Ci ho pensato e mi sono risposta. E’ solo l’inizio. Ma lo scrivo qui.
I femminicidi cominciano dove c’è un’educazione impari tra uomo e donna, dove si permette libertà al figlio e si nega l’aria e spesso la cultura alla figlia.
Iniziano e si allargano dove la mentalità fallocratica e androcentrica non concepisce che tutti i mestieri, tutte le attività, tutti i ruoli possono essere ricoperti da ambi i sessi.
Dove c’è chi si scandalizza per una donna che fuma la pipa o che pilota un aereo, come un tempo ci si scandalizzava di una donna che guidasse una moto o indossasse i pantaloni.
I femminicidi cominciano e mangiano e crescono e sono ben pasciuti da tutte le battutine da bar, in ogni barzelletta berlusconiana, in ogni frecciata sessista. Ecco, il “lei quante volte viene?” dell’ex premier, o la storiella della mela, e forza gnocca, e tutte le prostitute – anche minorenni – pagate dall’ex premier hanno avuto una forza legittimante nell’uomo comune che pagheremo ancora per decenni.
E’ di oggi la scritta davanti ad uno dei Licei Classici più celebri e ricchi della capitale che inneggia di fatto allo stupro (giustifica la violenza sessuale che subì Franca Rame. Giustificare una violenza equivale di fatto ad incitare a commetterne un’altra, c’è poco da girarci attorno).
Ecco, questo mondo non mi appartiene, questo Paese così regredito ed imbarazzante non è il luogo in cui vorrei invecchiare. Fossi madre, urlerei con ancor più forza. I nostri figli, le nostre figlie hanno diritto ad avere un posto più giusto per vivere.
Allora, cominciamo da noi.
I genitori diano uguali opportunità ai propri figli maschi e femmine. Vi pare banale? Bene. Ora guardatevi attorno e ditemi se lo è per tutti. Figli e figlie devono avere la stessa educazione. Stessi valori di rispetto e lealtà.
Leviamoci dalle battutine forzate da macho. E basta! Che noia, tra l’altro. Che povertà d’argomenti! Gli uomini dissentano, non si appiattiscano al branco, non temano di passare per vili, morbidi o che venga svilita la propria virilità.
Aboliamo l’unpolitically correct su temi come lo stupro, il femminicidio, la schiavitù femminile. Non facciamo passare nulla che non profumi di etica e di dignità su questi argomenti.
E noi donne, please please please, leviamoci dagli stereotipi anni ’50. Ricusiamo modelli di subalternità, che presumiamo ci facciano piacere di più agli uomini.
Non compiaciamoci di attenzioni volgari… anche qui: bastaaa! Non se ne può più. Ragazze, in cosa vi sentite migliori quando un collega/amico/conoscente/sconosciuto vi dice “ammazza che tette” o peggio ancora? Dov’è la lusinga? A me fa vomitare.
E aiutiamoci. Aiutiamoci a resistere. Supportiamoci nel lavoro, nella gestione degli affetti, non remiamoci contro, non giudichiamoci in base a retaggi veteromaschilisti (che spesso facciamo nostri in cerca di emancipazione).
Infine, tutti, uomini e donne, tutti, tutti insieme: siamo dolci.
Ecco, se c’è una parola che vorrei porre al centro del mio vocabolario è “dolcezza”. A parte l’inasprimento delle pene, la repressione, per contrastare la violenza esistono solo due strumenti: l’istruzione e la dolcezza. Educare però è compito per pochi, in una Società: principalmente per genitori e per insegnanti.
La dolcezza invece è di tutti.
Ad ogni situazione violenta e volgare, sessista ed arrogante, sottraiamoci con fermezza, non facciamoci complici e opponiamo un modello di dolcezza, di buona creanza, di educazione, di solidarietà. Prima o poi, farà breccia. Se saremo in tanti, non potranno non notarlo.
C’è un’emergenza in atto, in questo Paese, in questo momento.
Ed io ho voglia di aiutare la mia Italia ferita.
E le rose senza spine che vengono recise sempre più spesso.
Anna Eva Laertici
PS. Segnalo “#tisaluto”, ovvero un’interessante campagna lanciata da un gruppo di blogger che invita a uscire di scena, elegantemente, dicendo semplicemente #Tisaluto di fronte a situazioni volgari e sessiste. Qui il link per approfondire:
http://27esimaora.corriere.it/articolo/tisaluto-per-fermare-gli-insulti-sessisti/
Parto dalla fine. Leggo educare alla dolcezza e il suono delle parole mi rimanda subito edulcorare. Strano, ma significativo.
Poi l’inizio. Condivido ogni singola parola scritta magistralmente, come al solito, da Anna Eva. Ripenso a quel conoscente che si reputa una grande penna solo perché è stato anni fuori dai cancelli di trigoria e si scandalizza perché nessuno lo chiama a leggere il tg1. Vorrei tanto consigliargli di imparare a scrivere, prima, magari leggendo alcuni di questi post. Ma dicono che è unpolitically correct 😉 grazie, AEL