Presidente,
oggi ho esultato, lo confesso.
Negli ultimi quattro anni, ci ha fatto capire che non è il Messia, non è il romantico eroe risorgimentale che mi affascinava con il Suo “Yes, we can”. Però che Lei oggi possa continuare a costruire un’America – e un mondo – più umani, beh, io lo spero e lo credo.
Eh, già, Presidente, ha sulle spalle un pianeta, non uno Stato. Se si governa la nazione più potente del mondo, non si può non sentire la responsabilità d’avere sulle spalle anche noi.
Ma “Yes we can – again”, Presidente.
Le chiedo di andare a meritarsi quel Nobel della Pace prematuro ed improvvido che Le fu dato sulla scia dell’emozione della Sua elezione di 4 anni fa.
Sa, Presidente, io vengo da un Paese che alla cultura ha dato tanto. Vengo da un luogo, pensi, che ha dato i natali ad un uomo coraggioso, che affrontando superstizioni e maestose intemperie, attraversò un oceano e trovò una terra di cui oggi Lei è il maggior rappresentante.
Per anni, Presidente, noi Italiani (e noi Europei) ci siamo dati le arie da migliori del mondo, abbiamo snobbato voi fratelli giovanissimi del nuovo continente.
Oggi, mi ha arrecato un dispiacere profondo: c’è stato un momento in cui ho dovuto mettere da parte la mia presunzione di superiorità verso gli Americani, e ho dovuto abbassare il capo.
Ho provato dolore quando ho sentito il Presidente appena rieletto, Lei, prendere in mano il microfono e affermare al primo punto che l’istruzione è importante, e il diritto allo studio deve essere concesso a tutti.
In questi giorni ho letto tanto su di Lei e sul Suo avversario: qui in Italia qualcuno scriveva che non si può parlare di sinistra e di destra negli USA.
Non condivido.
Un Presidente che sottolinea l’importanza dell’istruzione per tutti i cittadini, è un uomo con idee fortemente inserite nei valori democratici e progressisti della sinistra.
Qui da noi, Presidente, discorsi così non li fa più nessuno.
Il titolo di studio non conta (e un’igienista dentale può sedere in un consiglio regionale) e l’unico valore che abbia un peso è l’apparire.
Presidente, il Paese da cui vengo ha un patrimonio culturale che non ha eguali. Eppure, da tanto e troppo tempo non abbiamo governo, non abbiamo idee, non abbia forza. Resta salda solo una potenza, secolare, prepotente: siamo il giardino che si sviluppa attorno al Vaticano.
La Sua vittoria mi ha arrecato un ulteriore dispiacere. Ho visto che i referendum per legalizzare i matrimoni gay sono stati un traino per Lei. Capisce la banalità di questa affermazione? La proposta di una legge che dia diritti ad una minoranza è stata fatta propria dalla parte politica cui Lei appartiente. Perché non c’è niente più di “sinistra” che voler tutelare i cittadini che hanno minor diritti.
Ancora una volta, Presidente, duole ammettere che qui siamo lontani anni-luce da tutto ciò: chiunque proponga non già i matrimoni, ma patetiche forme di assistenza legale per coppie dello stesso sesso (dai nomi improbali, mascherati in sigle che non spaventino i “benpensanti”) è dato per perdente.
Voglio credere che questa sia una sciocchezza partorita dalle menti della classe politica nostrana, così distante da un popolo che forse è più pronto di loro verso certi temi.
Caro Presidente, ancora Presidente, per altri 4 anni Presidente, sono infastidita per un altro schiaffo che mi dà la Sua rielezione: nel mio Paese si fischia un ragazzo bresciano, giovane talentuoso calciatore nato sul suolo patrio, non per quanto sia antipatico (lo è, mi creda), ma perché non ha la pelle del colore “giusto”.
D’altra parte, Presidente, Lei sa bene che il mio Paese è stato governato per 20 anni da un uomo che la definì “abbronzato”. Tanto era incapace a spiegarsi come mai un probabile discendente di schiavi africani fosse diventato più importante di lui, che ridusse la Sua persona a qualcosa di più vicino alla propria maniacale attenzione all’estetica da “liftato” e “lampadato”.
Va bene, Presidente, ora deve cominciare a lavorare.
Lo faccia da domani, però. Oggi è il giorno in cui deve festeggiare.
E noi con Lei.
Anna Eva Laertici