Passato.
La telecamera inquadra scaffalature piene di sacchi. Una sensazione che diventa certezza e gelo nello stomaco.
Un ragazzo dall’età indecifrabile, forse 35, magari 40 anni, racconta in un inglese corretto ma imparato che non avevano più spazio e hanno dovuto costruire quell’hangar, fatto di corridoi e scaffali, per catalogare, pulire, ricomporre i resti e gli oggetti personali di più di ottomila uomini ritrovati nelle fosse comuni della ex Jugoslavia.
Stacco.
In campo nero, appaiono bianche le parole ‘store’, ‘place’, ‘human remains’.
Pugni dritti in mezzo allo sterno.
E di nuovo quella voce neutra, un racconto pulito senza essere asettico dell’attenzione nell’ordinare, nel cercare la famiglia della ‘missing people’, nell’evitare le madri.
Un po’ prestigiatori, un po’ rabdomanti che estraggono le storie delle persone da poche ossa impolverate, dentro un lavoro maniacale di catalogazione di dna mischiati, rigoroso ma allo stesso tempo amorevole.
Per ricostruire un’identità, ridare dignità, giocatori addolorati di un puzzle per ricomporre i resti e con loro la memoria di un’esistenza spezzata da una follia inaspettata, ingiustificata. Ignorata.
Ancora parole bianche su sfondo nero. Odore, suono dell’aria condizionata che mantiene la temperatura, acqua e aria a pressione per pulire le ossa e i vestiti e gli altri mille oggetti dalla polvere, “che saranno restituiti alla famiglia, se li vorranno, altrimenti sepolti coi resti”.
Presente.
Facce serie, sento la mia contratta in una smorfia. I cazzotti nello stomaco fanno questo effetto. Le parole dell’ultima intervistata, “sai che è successo, eppure ti chiedi com’è possibile che una cosa così inverosimile sia esistita davvero”.
Già, come. Avevo 16 anni e la guerra dall’altra parte del mare, studiavo la follia nazista e fascista di 50 anni prima e vedevo in diretta tv il risultato di quelle idee: erano lì, davanti agli occhi, non sui libri. La pulizia etnica, l’orrore della razza superiore, uomini, donne, ragazzi come me trucidati perché colpevoli di un sangue ‘impuro’.
Scoramento. Non c’è speranza. l’uomo è destinato all’estinzione, perché non impara mai dai suoi errori.
Anzi.
Trova modi sempre più micidiali per autodistruggersi.
Luce in sala.
Caterina parla al microfono davanti ai suoi compagni. “Non so perché la gente si faccia la guerra, dicono che c’è sempre un motivo. Io invece credo che la guerra ha sempre una scusa”.
Gabriele si chiede come può una dichiarazione dei diritti umani dirsi universale, se ognuno si scrive la sua. “Dovremmo essere tutti uguali e godere degli stessi diritti”.
Ma Christopher, 13 anni, artista, come si definisce dopo che il suo professore l’ha chiamato così, ribatte “il mondo è bello perché siamo tutti diversi, non ci sarebbe l’artista se tutti fossimo artisti”.
Hanno studiato gli artisti naif di Zagabria, hanno disegnato il ponte di Mostar, letto il diario di Zlata. Cantano Blowin in the wind, La guerra di Piero, Primavera a Sarajevo. Discutono. Dice di loro il professore che li accompagna in questa avventura che “più parlano e conoscono e dibattono e più viene loro voglia di parlare, di conoscere e di dibattere”.
Andranno in Bosnia, cercheranno testimonianze, visiteranno moschee e sinagoghe e chiese ortodosse e musei.
Cammineranno sulla strada della memoria, per disseppellire quei corpi, per ricomporre quei resti, per essere ponti, zone di equilibrio, passaggi aperti, zone di confronto.
Si sono impegnati a essere testimoni e a portare la loro esperienza fuori dalle loro aule.
Sento la faccia distendersi in un sorriso.
Forse (ma è un dubitativo scaramantico) la speranza c’è. Sono questi ragazzini di terza media, sono i professori che li supportano, li crescono con spunti, dubbi, provocazioni.
Sono loro. Il futuro.
(Incontro con le terze medie che partecipano al progetto “Testimoni dei diritti” e presentano un approfondimento sull’articolo 28 della Dichiarazione Universale dei diritti umani, che recita: ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati.)