di Francesco Volpe, Corriere dello Sport
Rainbow Nation. Cosi’ l’arcivescovo Desmond Tutu defini’ il Sudafrica del post-apartheid. Nazione arcobaleno. Il paese degli agricoltori boeri del Northern Transvaal, dei colletti bianchi inglesi di Citta’ del Capo, dei tassisti indiani di Durban, delle nove nazioni nere e dei pronipoti degli ugonotti. Era il 1994.
Oggi, diciannove anni dopo, il termine puo’ essere esteso anche all’Italia. All’Italia dei pizzaioli egiziani, delle colf filippine, dei ristoratori cinesi. L’Italia che scorre sotto i nostri occhi tutti i giorni, in cui il compagno di classe di tua figlia si chiama Yao o Yusuf, ma parla il dialetto meglio di te. Siamo una nazione arcobaleno alla faccia di chi – per ignoranza, stupidita’ o, peggio ancora, convenienza – combatte battaglie di retroguardia che appartengono al secolo scorso. Una nazione senza frontiere, orgogliosa di avere una donna nera ministro, che sa rispondere agli insulti piu’ sguaiati con una compostezza e una dignita’ che tanti italiani (a loro dire) doc neppure conoscono. Siamo una nazione arcobaleno anche nello sport. E i numeri fanno impressione.
Nel 2011 i cittadini stranieri nel nostro Paese costituivano il 7,5 per cento dei residenti. Ma gli azzurrini dell’atletica in questi giorni impegnati a Rieti negli Europei juniores schierano il 16 per cento di ragazzi nati all’estero o naturalizzati. Quota che sale al 20 per cento se si fa riferimento alla Nazionale reduce dai recenti Mondiali under 18.
E cio’ malgrado una legge sull’immigrazione tra le piu’ restrittive d’Europa, che non riconosce lo ‘Ius soli’, il diritto alla cittadinanza per nascita. Una legge che costringe la triplista ex ucraina Dariya Derkach, italiano fluente e venato d’accento campano, che vive a Pagani dal 2002, ad aspettare undici anni prima di ottenere il passaporto e poter vestire la maglia azzurra. Maglia che sente sua come una seconda pelle. L’unica che dovrebbe contare nell’Italia arcobaleno del terzo millennio.