Torino, A-Z

Aeroporto. Ho riscoperto il piacere di volare (se di piacere si può parlare, mi sudano sempre un po’ le mani) relativamente da poco, meno di dieci anni, e proprio grazie a Torino e al Salone del Libro. Quello che non ho mai perso è il piacere dell’aeroporto. Mi piacciono i posti da dove si parte, stazioni, porti, aeroporti. Non mi piace quando si avvicina, ma è un problema mio, l’idea di partire: staccarti da casa tua, dalle persone che ami, dalla vita di tutti i giorni, dalla quotidianità che maledici e che poi, clamorosamente, ti manca. Poi però ecco la magia: sali in aereo, o sul treno, o sulla nave, e inizia il viaggio. Il viaggio è diverso dal partire. Il viaggio è un’altra vita, un’altra storia. E i motivi per cui non amo partire, diventano i motivi per cui amo viaggiare. Ah, stavolta l’aereo lo guidavo io: posto 1F, ultima a salire, prima a scendere, direttamente in aerostazione e bagagli al nastro quasi già pronti, il tempo di una pipì. Una magia, l’avevo detto.

Biscottini. Confesso, ho rubato. Sabato sera, ristorante segnalato da colleghi habituée. Posto carino, finalmente a Torino non esistono più le cucine chiuse alle 21, anche perché con un Salone che va avanti fino alle 23, la concorrenza del paninaro dentro il Lingotto va comunque contrastata. Focaccia buona buonerrima con San Daniele e poi…quella voglia come di qualcosa di dolce. E se il tavolo dietro di te è vuoto e gli avventori precedenti ci hanno lasciato sopra il piattino gentilmente offerto dalla casa e ricolmo di biscottini secchi al cioccolato? No, non posso, non si fa. Tra l’altro neanche mi piacciono i biscotti secchi al cioccolato. Ma al collega di fronte a me sì.

Colazione. La piazza della chiacchiera, lo struscio del pomeriggio alle 9 di mattina. Gli occhiali da sole assolvono due funzioni primarie: coprono le palpebre abbottate da serate tirate troppo a lungo e nascondono lo sguardo che vaga alla ricerca del personaggio più o meno famoso. Da segnalare le signore in tirissimo con tacco d’ordinanza e trucco perfetto e la cameriera che mi ha scambiato per Rossana Casale (“è identica!” “sì, ma senza la voce”), che mi ha portato il cappuccino col latte freddo sormontato una pseudo-schiumetta, “sennò che cappuccino è?”

Dream. Quello che hanno quei pazzi della TIC Edizioni, romani. Hanno ideato una maglietta (ma anche un poster e una borsa di tela per la spesa) che si chiama “I have a dream”, e ci hanno disegnato sopra una pianta di Roma attraversata da decine di linee della metropolitana. Ma non è il loro pezzo più noto: sono produttori delle parole magnetiche per il frigorifero e della mensola invisibile, un libro di compensato con dorsetto e copertina che si attacca al muro e sostiene i veri libri. Il titolo migliore? “Resistenza e muri”, edizioni Classici Sospesi. Certo, se poi quando passi davanti al loro stand ti fanno pure la ola…

Eataly. Il regno del prodotto made in Italy diviso per tema (pesce, pasta, carne, pizza, dolci), dove mangiare nei ristorantini a tema e acquistare come in un supermercato, ma a prezzi da gioielleria, l’eccellenza della tavola italiana. Dopo sei anni consecutivi di visite e incursioni, quest’anno non ci sono capitata neanche per sbaglio. Forse la crisi del settimo anno? Tanto so già che rimedierò con l’apertura della megafiliale romana, prevista prima dell’estate.

Fiat. Torino e Lingotto sono i due sinonimi di Fiat, simbolo della città tanto quanto la città è simbolo di Fiat. Il segno più evidente della crisi? I tassisti torinesi cominciano a scegliere altre macchine. Vanno forte la Toyota Prius e alcuni modelli della Kia, più attenti ai consumi e all’economia: resiste la mitica Multipla, ma quel furbo di Marchionne l’ha tolta dalla produzione.

Galleria. Quella commerciale che attraversa tutta la struttura del Lingotto. È divisa in corti, della ristorazione, dei giochi per bambini, del cinema, manco fosse un castello. In questi sette anni di frequentazione ho imparato dove stanno i negozi che mi piacciono di più e i ristoranti dove mangiare nella pausa della fiera. Ogni angolo ha anche i suoi ricordi, e il pavimento tiene memoria delle mie scarpe e dei miei piedi.

Hotel. Lo chiamo ancora “il Meridien”, anche se da due anni è diventato NH Lingotto. Mi piacciono gli spazi ampi, tipici da fabbrica riadattata. Mi piacciono le linee essenziali, senza fronzoli, quasi a voler rispettare le storie degli operai che qui dentro ci lavoravano. Mi piace il suo giardino che sembra una foresta, tra i due edifici. Mi piace la pista, dove venivano testate le macchine e dove ora gli ospiti più sportivi si allenano, tra l’atterraggio di un elicottero e l’altro. Mi piace l’ala che dà sulla ferrovia e sulle montagne e sull’arco olimpico di Calatrava, dal 2006 semplicemente “la ceppa”. Mi piace l’idea che quando siamo qui facciamo casa e bottega col Salone, solo il tempo di una passeggiata e due vetrine, cambiarsi i vestiti, mettersi scarpe comode e rituffarsi nella bolgia dei libri.

Iman. Ma anche Ahmed, tanti, e qualche Mohammad, e Mafousa, e Jahira. Sono i nuovi torinesi, quelli che abitano da queste parti, bambini che vanno alla scuola elementare e che abitano negli appartamenti del villaggio olimpico con i genitori emigrati. Parlano un italiano perfetto, hanno anche il birignao tipico di qui. Portano il velo, ma le magliette hanno gli strass o i personaggi dei cartoni. Cantano l’inno di Mameli, e lo sanno a memoria. Imparano come funziona il Paese che li ha ospitati, perché è il loro Paese. E riescono sempre a commuovermi.

Lingotto (e Libri). Forse il nome deriva dalla forma. Forse semplicemente serviva qualcosa che evocasse un che di prezioso, l’oro si vende e si compra a lingotti. E il Lingotto è stato per tanti anni, anche se ora in misura diversa, la ricchezza e il tesoro di Torino. L’oro di questi giorni è di carta e di elettronica: Lingotto e Libri, un binomio inscindibile, che hanno capito anche quelli del Salone dopo la fallimentare esperienza di un anno fa all’Oval.

Muffin. Di cioccolato, con i diavoletti colorati sopra, con la glassa, con lo zucchero a velo. E ancora baci di dama e tavolette a quadrotti, al latte e fondente. Non ero in un sogno iperglicemico, ma in albergo, davanti all’installazione di uno sconosciuto (almeno a me) artista torinese, che si è inventato questo arredamento a forma di dolci al cioccolato. Il muffin con la glassa alla vaniglia era particolarmente comodo.

Nikki. Ho scoperto domenica pomeriggio che Nikki ha un diario ed è una frana. L’ho scoperto grazie a un gadget spaziale della casa editrice “Il Castoro”, libri per bambini. Una penna rosa sormontata da un cuore di gomma che, se opportunamente sbattuto al muro, si illumina diventando fucsia e viola. Inutile dire che sono andata in giro per la fiera tipo eroina di cartoon giapponese (ahi, l’infanzia davanti alla tv) con la bacchetta magica.

OGR – Officine Grandi Riparazioni. Il colpo di fulmine. Il posto più bello di Torino. Per la terza volta mi sono gustata “Fare gli italiani”, una mostra incredibile sulla storia dei 150 di unità raccontata attraverso immagini, materiali, installazioni interattive, in una cornice suggestiva come quella delle officine dove si riparavano i treni. Un luogo fuori da qualsiasi circuito classico museale, dove imparare chi erano i non ancora italiani e chi saranno – forse – i nostri nipoti.

Pesce (crudo). Riesco sempre a stupirmi di come, al momento di decidere dove mangiare la sera (sarebbe più appropriato usare il termine “notte”, visto che non ci si attavola mai prima delle 23.30), la parola più pronunciata sia “pesce”. A Torino? Niente Bagna cauda (che pure di pesce parliamo, ma di acciughe)? Formaggi? Toma? Al limite tonno di coniglio (che sembra un pesce ma non lo è)? Niente. Evviva la sagra del gambero e del tonno (quello vero) preferibilmente crudo. Eppure lo stracotto al barolo non era niente, niente male.

Quarantacinque euro. Il prezzo della buonissima focaccia al San Daniele (cfr. voce “Biscottini”), lievitato (dirlo di una focaccia è quanto meno appropriato) grazie al menù dei colleghi, che sentitamente ringraziano per averli fatti risparmiare. Ah, l’ho accompagnata, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non con champagne millesimato, ma con acqua naturale. Mi viene un dubbio…se i biscottini li avessimo regolarmente pagati, quanto sarebbe stato il conto?

Regali. Quelli che mi sono divertita a fare agli amici dopo un cambio di scarpe al termine del turno allo stand. Sono al Salone del Libro? E allora regalo libri, di quelli che non si trovano nelle grandi catene di librerie. Il ricettario per il pane con le fasi lunari, il vademecum del buon risotto, i gioielli fatti con la lana, il metodo sticazzi in amore, la maglietta che ti ricorda che il sole splende sempre. Proposta: Salone del Libro anche a Natale.

Sepulveda. Incroci doppi, col barbuto scrittore cileno. La mattina a colazione, e che impressione vederlo versarsi il latte freddo e scegliere la marmellata per le fette. Sorride. È un bel sorriso il suo. E poi nei racconti di Luciano, che è andato in una scuola elementare dove la dirigente, appeso nella stanza, aveva una cornice a giorno con un disegno e una dedica: un gatto la cui coda andava a comporre la firma Luis Sepulveda. E immagino uno scrittore famoso che va in una scuola della periferia di Torino e incontra i bambini e regala loro uno schizzo e un pensiero. Il mio? Peccato non aver comprato un’altra copia de “La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare”.

Tiziana. La mia amica, quella che abita a Roma come me ma che vedo una volta l’anno, a Torino. Lavora per una grossa casa editrice e l’appuntamento del Salone è fisso. Siamo cresciute insieme, i nostri genitori, suo padre prima e sua madre poi, lavoravano con mio padre. Abitava lontano, ma andare a cena o per un’occasione a casa sua era sempre una festa. Abbiamo fatto qualche gita insieme, condiviso una colonia a Follonica, inventato uno spettacolino per i parenti il giorno della mia comunione. Nei momenti più importanti lei c’era. Da grandi le strade si dividono, necessariamente o per pigrizia. Eppure lei c’è sempre, l’anno trascorso senza neanche un sms non scalfisce di un’acca la nostra amicizia.

Ulivo. C’è una chiesa, una traversa prima del Lingotto, dove vado a messa la domenica quando sto a Torino. È una chiesa di quelle vecchio stile, col cancello, la scalinata, una navata centrale e il campanile. È una chiesa di salesiani, a Torino giocano in casa. È una chiesa di un quartiere operaio, il Lingotto non è certamente una zona residenziale della città. Ci ho trovato sacerdoti attenti e concreti, attaccati alla realtà che leggono con gli occhi del Vangelo. Pochi fronzoli. Lo dimostra l’ulivo piantato dietro l’altare. Un albero vero, non una pianta, non fiori recisi: un tronco solido, le foglie, i fiori che cominciano a spuntare in questo periodo dell’anno. Quest’anno ho assistito a una messa di comunioni: una decina di bambini, vestiti con l’abito della festa, niente saccoccioni per renderli tutti uguali. Il sacerdote, giovanissimo, si è rivolto a loro con parole semplici, anche divertenti, che sono riuscite a scavarmi dentro. A volte penso che basterebbe così poco.

Valigia. Il dramma vero di ogni partenza. E che mi porto? E se fa freddo? E se fa caldo? E mica posso mettere due volte lo stesso vestito. E quando usciamo la sera a cena? Serve qualcosa di comodo se devo camminare molto. Scarpe alte e fighette, ma che non mi facciano troppo male per le decine di ore in piedi. Però anche quelle da ginnastica, quando mi metto i jeans per girare la fiera. Giacca di pelle o impermeabile? Occasione sportiva o istituzionale? Risultato: 18 chili di bagaglio, vestiti mai messi, e poco, maledetto pochissimo spazio per le cose comprate a Torino. Imparerò, un giorno?

Zerocalcare. Re del disegno, imperatore della striscia a fumetti. Il genio puro in carne e matita. Che bello ritrovarlo a Torino, sulla parete di uno stand nei tratti del cane della Bao Edizioni. Dove mi hanno regalato una spilla splendida disegnata da ZC: “Anni ’90, quanto dolore”. Quant’è vero.

3 pensieri su “Torino, A-Z

  1. Semplicemente bellissimo.
    Ti ringrazio per avermi regalato in primis l’immagine dell’ulivo dietro l’altare. Poi il metodo sticazzi in amore, Sepulveda e ZeroCalcare, l’incapacità a fare le valigie (che condivido nel profondo nonostante anni e anni di viaggi più disparati) e i biscottini secchi al cioccolato. Per tua info: a me piacciono, la prossima volta ti autorizzo a rubarne uno in più.
    Capisco la tua amicizia-senza-sms-per-un-anno-ma-nella-quotidianità-lo-stesso perché ne vivo anche io. E ho imparato a conoscere una nuova tipologia d’amicizia.
    E’ una penna che sa scrivere e sa farti viaggiare. Di cui non so altro se non che si frega dei biscottini che nemmeno le piacciono. Buffo. Ma generoso. Di questi tempi è qualità rara.

    Ti abbraccio,
    AEL

    1. detto dai miei preferiti (ecco, lo sapevo, mi sono scoperta… un giornalista sportivo non dovrebbe mai dire per che squadra tifa)… vado di là, faccio la coda come un pavone, e torno normale.
      ste

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