“A mà, ‘ndò stanno i fusò?”
Catiuscia li chiama ancora così. Figlia della seconda metà degli anni settanta, adolescente in quella terra di mezzo tra le speranze degli ottanta e i bruschi risvegli da Tangentopoli, è già al secondo giro di moda. A chi tocca la zampa d’elefante e a chi quegli impietosi simil pantaloni che stanno male pure alla Stone. E che Catiuscia non si rassegna a chiamare leggins.
“Te l’ho lavati, stanno ancora stesi co’ la robba de tu’ fratello, che è tornato stammattina dal turno de notte. Ho fatto tutta ‘na lavatrice, ma co’ ‘st’arietta asciugano presto, nun te preoccupà”.
I fuseaux di Catiuscia sono leopardati, ma sui toni del rosa. Li aveva visti addosso a Giuliana, l’amica sua della scala G, e li aveva trovati irresistibili. All’ultima moda, con quel tocco di femminilità che una giovane donna (sopra i 35 si dice così, no?) non deve mai dimenticare.
Anche se abita in una casa popolare di un quartiere malfamato, anche se stesa con i suoi leggins c’è la divisa arancione fluorescente del fratello, lavoratore socialmente utile a 700 euro al mese, ancora a casa di mamma e papà, come lei. Con quei simil pantaloni lì, che garriscono al vento di San Basilio come una bandiera che parla di sogni a macchie rosa e nere.
“E sembra un sabato qualunque, è un sabato italiano, il peggio sembra essere passato…” La voce di Sergio Caputo nelle orecchie lo prende alla sprovvista. Si ferma con la scopa a mezz’asta, la faccia su cui si legge chiaramente: macchemmestaiapijaperculo? così, tutto attaccato. Il turno di operatore ecologico, il dignitoso spazzino di un tempo, il decadente monnezzaro del duemila e spicci a Roma, è appena iniziato. Il peggio, forse, può solo venire, in questo sabato in una strada della periferia che neanche ha la consapevolezza di esserlo. “Lavoro a San Cleto, sabato”. “Dove?”, gli ha ribattuto Carla, la sua donna. Ha dovuto faticare per spiegarle questo lembo di terra che solo per un caso, o per la deviazione non consapevole della matita di un geometra del Comune, sta dentro Roma. Non è San Basilio, e men che meno Talenti. Montesacro Alto è giusto poco più in là. “Basta, basta, non ne di’ più, che ho capito”, ha sbrigativamente chiuso la conversazione lei. Certo, di Roma felliniana questo posto ha davvero poco. Ma nel pigro inizio pomeriggio di una giornata primaverile e semifestiva, eccolo lì. Non si sbaglia. Si avvicina, prima con circospezione, poi con più coraggio. In mezzo alle foglie secche, ai fazzolettini usati, alle carte delle caramelle non si può sbagliare. E’ un pallone, di cuoio, di quelli veri. Magari acciaccato, ma ancora in grado di svolgere la sua funzione primaria. Lo prende in mano, lo valuta come farebbe un orologiaio con un prezioso Patek Philippe. Si guarda intorno, per essere certo di non essere visto. E, silenziosamente, sorridendo, comincia a palleggiare.
Tre ragazzini, uno skateboard e un cane al guinzaglio. Il passo svelto di chi sa di aver già abusato abbastanza della pazienza di mamma e papà che avevano detto: “Prima che faccia buio”. Non c’è mai un orario preciso, ai ritorni dei ragazzini: lo spauracchio di tutti è il buio, quella zona della giornata dove tutto può succedere solo perché il sole è già sceso. E quindi si lascia il prato per tornare a casa, dopo aver combattuto contro i draghi, o magari gli zombie. Dopo aver vinto le olimpiadi, grazie a quell’evoluzione che ci ho messo mesi ad imparare, ma guarda qua che figurone, neanche le ginocchia mi sono sbucciato.
Non parlano tra di loro. Il fiato va risparmiato per raccontarsi domani le avventure di oggi, per correre al sicuro dopo aver affrontato i mostri, coraggiosi, con i pantaloni già corti, uno skate e un fido destriero al guinzaglio.