Un giorno mentre stava andando al lavoro ripensava a tutti i complimenti che i suoi amici gli avevano fatto su quelle poche righe due sere prima. Un articolo generico, su un tema trito e ritrito, dove si era già scritto tutto, un articolo difficilissimo insomma. Ma come spesso gli accadeva, aveva fatto il miracolo, era riuscito a tessere una storia scritta con il suo inchiostro migliore, sottile e lucente come un filo d’oro e profondo come il mare. Gli occhi di chi leggeva rimanevano vittime di un incantesimo. Sembravano addomesticati dal curaro, diventavano lenti.
Si muovevano piano sulle parole, parevano piccole minuscole macchinine di certi luna-park, percorrevano ogni lettera. Tracciavano i lunghi rettilinei disegnati dalle “l”, saltavano i dossi e le gobbe di “n” ed “m”, giravano intorno alle rotatorie formate dalle “a” e dalle “o”, scivolavano sulla pozza d’acqua fra la “i” e il suo puntino e infine zigzagavano sinuosi intorno alle “s”. Una vera e propria magia, un dono concesso solo ad alcuni, che molti vorrebbero avere e che forse solo in pochi sanno apprezzare.
Chi lo apprezzava di certo erano i suoi penfriend, non degli ex studenti che aveva conosciuto nel corso delle sue numerose vacanze studio e con cui aveva mantenuto i contatti e uno sbiadito vocabolario di lingue straniere, sempre più ristretto col passare degli anni e con l’aumentare delle lettere, sempre più rade.
I penfriend, come li aveva definiti una volta un suo amico che si divertiva a storpiare la traduzione delle parole straniere, facendo credere a tutti di non conoscerne il vero significato, era il gruppo voluto da un gran maestro con cui aveva iniziato a muovere i primi passi sulle pagine sottili del “suo” quotidiano, attento a non calpestare spazi che non gli competevano, argomenti tabù o scrivanie enormi considerate troppo piccole per essere condivise.
Nel corso dei mesi erano diventati amici, alcuni più intimi, altri meno, ma tutti estremamente fidati. Erano pomeriggi trascorsi a discutere di scalette, pizze fredde da mangiare dopo aver chiuso un pezzo, caffè della macchinetta al piano di sopra e sguardi storti di chi ti ospita nella sua stanza e perciò crede di poterti salutare o ignorare a seconda del proprio umore. Un astuccio pieno di penne capaci a volte di trasformarsi in pugnali aguzzi.
Succedeva spesso, durante le riunioni, di essere punzecchiati per un aggettivo sbagliato, graffiati per un periodo mal posto o trafitti per un’innocua, banale, quanto mai ovvia ripetizione. Un vero gruppo di bastardi quando analizzava i pezzi elaborati dai propri componenti. Ma con quei bastardi avrebbe voluto lavorare per tutta la vita. Ma il destino il più delle volte non coincide con quello dei sogni. Era questo il pensiero amaro che in un attimo aveva cancellato quei complimenti tanto dolci, mentre si era accorto di essere arrivato solo a metà del tragitto che ogni giorno lo portava al lavoro.
Il lavoro, il secondo, quello che gli permetteva di pagare l’affitto, quello che non lo affascinava come quei pomeriggi dedicati ad abbellire il giornale, ma che tutto sommato non gli dispiaceva affatto, quello con cui poteva iniziare a fare dei progetti, ad arricchire casa di mobili e ninnoli su cui, anni dopo, si sarebbe chiesto il senso dell’acquisto, quello che aveva cancellato l’eco quando per sbaglio parlava in cucina col frigorifero aperto. Il tram era mezzo vuoto, seduto al suo posto preferito, il sette o l’otto chissà, non si era accorto di stare da quasi venti minuti fermo a pagina quarantadue del libro che stava leggendo.
I suoi pensieri si erano intrufolati in tutte le righe e avevano trasformato la carta in leggerissimo vetro appannato. Ma adesso era pronto a riprendere la sua storia, il vetro si era schiarito, l’inchiostro era tornato sui suoi binari, stava riprendendo dal periodo che aveva ingiustamente mozzato, quando a interromperlo fu una voce: «Ma a che pensi? Perché da quando sei salito non hai letto nemmeno una pagina del libro che hai tirato fuori dalla borsa?».
Pensava di essere sfuggito alla curiosità della gente. Era una cosa che lo infastidiva enormemente essere osservato o indagato da persone che non conosceva. Prima di abbassare il libro e alzare lo sguardo per fulminare chiunque avesse detto quella frase, per la seconda volta fu colto di sorpresa. «Mi chiedo che senso abbia portarsi in giro un tomo del genere se poi non lo si legge, mortifichi l’autore e rendi un’opera un peso inutile».
Davanti a lui c’era un bambino di circa dodici anni, con la faccia severa, saccente, velatamente infastidita. Una faccia da schiaffi. Stava per rispondergli, anzi rimproverarlo, come fanno i genitori con i propri figli. Dandogli prima di tutto del maleducato, anzi dell’ineducato, così si sarebbe sentito più figo, avrebbe rispolverato un po’ di etimologia e avrebbe preso subito le distanze da quel piccolo insolente, e poi giù con la paternale.
Ma ecco, come un pugno secco alla bocca dello stomaco, la terza mazzata: «Guarda che lo so già cosa stai pensando. È inutile che cerchi di insegnarmi nel giro di una fermata di tram cos’è l’educazione. Io come al solito mi sto preoccupando solo della mia missione, i libri. Quindi, per favore, non fare quella faccia». Avrebbe voluto ricoprirlo di “fatti gli affari tuoi”, sotterrarlo sotto una montagna di insulti, inondarlo di parolacce e, perché no, sculacciarlo davanti a tutti, ma la bocca non riuscì a pronunciare neppure un suono, lo stupore lo investì per un tempo imprecisato, l’unica cosa che riuscì a fare fu fissare quella lingua tanto tagliente in grado di immobilizzare la sua. In quel momento non immaginava che quel bambino paffutello gli avrebbe cambiato la vita.
CONTINUA…
(tratto da Il Dono, racconto, di Luigi Priami e Simone Colonna, parte 2. Qui puoi leggere la prima parte della storia)
per la foto, tech.fanpage.it