Dalle tendine della cucina il neon del supermercato di fronte, che da quando si era trasferito lo aveva sempre visto con tre lettere su cinque fulminate, era spento. Uno sguardo all’orologio, erano passate le otto di sera. Accidenti quanto aveva fatto tardi al lavoro. Almeno me li pagassero gli straordinari, pensava, taccagni schifosi.
Che era tardi lo avrebbe dovuto capire anche dai rumori che arrivavano dallo stomaco, sottili, prolungati, sempre più ripetuti. La fame incombeva, ma che fine aveva fatto… Oddio che colpo, nell’aria si diffondeva la nuova suoneria terrificante che, all’ora di pranzo, si era deciso a inserire. Un battaglione male assortito di note che lo avrebbe inseguito e attaccato fino a che il suo dito non avesse schiacciato il più sbiadito dei tasti verdi.
Niente più “Stava nello zaino, giuro, proprio non l’ho sentito, e dai non t’arrabbiare!” oppure “È l’ultima volta, promesso, domani levo Per Elisa e mi sparo un pezzo tecno con sfumature underground”. Che palle, mentre afferrava il cellulare sulla libreria del corridoio, niente più bugie, scuse per non rispondere quando vorresti essere l’unico abitante sulla faccia della terra, ma non potrebbe uscire una legge che dichiara la telefonia mobile un’evidente violazione della privacy?
“Ma dove sei, dovresti essere qui già da dieci minuti, fra un po’ inizia”. “Ecco, indovina perché il mio adorato sedere non è ancora lì, sul tuo divano? E aspetta, vediamo se ci arrivi, perché non ho fra le mani una bella birra ghiacciata, sto aspettando e imprecando con l’egiziano che ancora non mi porta la mia capricciosa, e faccio finta di ascoltarti mentre scorrono le formazioni e non vedo l’ora che quell’infamità dell’arbitro di stasera, perché lo sai che Viani da Como è proprio un infame, dia il fischio d’inizio?”
Ahia, qui si mette male. Mi ha addirittura confessato che fa finta di ascoltarmi quando scorrono le formazioni. Lo sospettavo da almeno dieci anni, ma non credevo che arrivasse a tanto, ha sempre negato. Che amico di merda. Che grande amico. “Vediamo, mi concentro e sparo: hai fatto tardi con un cliente, arrivi al dodicesimo quando siamo già sull’uno a zero, non vuoi la capricciosa ma una funghi bianca, e se quello delle pizze interrompe un’azione tutta di prima te lo sbrani e guai a me se gli do la mancia”.
“No, ti sto chiamando per darti una buca colossale, una tipo che fra tre giorni stai ancora a scavare”. No, la partita da solo, no. “Guarda non è colpa mia, prenditela con quella scassacazzi di tua cugina”. “Che poi è anche la tua amata fidanzata, no?”. “Dopo stasera mica lo so. Mi chiama mezzora fa e mi inizia a dire che sta poco bene, che ha i brividi, che a casa non ha neanche un’aspirina, che non riesce a muoversi dal letto, insomma, tutta una serie di minchiate per arrivare al fatidico non è che vieni da me stasera, sto così male.
E che dovevo fare, o le dicevo che la nostra relazione era al capolinea, mi godevo la serata con te e domani la chiamavo per dirle che ieri avevo mangiato funghi rossi a puntini bianchi, o le dicevo: ma non ti preoccupare tesoro, in fondo è solo una semifinale di coppa, ne ho viste così tante, arrivo subito e ti preparo un bel brodino caldo. Che dici se il brodo lo aromatizzo alla cicuta?”.
No, la partita da solo, no. “Ma dai Franco, non ti stare a preoccupare, sei il solito inaffidabile, ma ormai lo sei da circa quindici anni, non ci faccio più caso. Vabbè, salutami la mia cuginetta, falle due coccole e cerca almeno di vederti gli highlights a fine gara”. No, la partita da solo, no. “Allora ci sentiamo domani e, un’ultima cosa, sei infame come Viani da Como. Notte”.
CONTINUA…
(tratto da Il Dono, racconto, di Luigi Priami e Simone Colonna, parte 4. Qui puoi leggere la prima la seconda e la terza parte della storia)
per la foto, www.campioni.cn